Con l’espressione «oli di frontiera» si intendono gli oli provenienti da produzioni olivicole delle regioni del Nord Italia, senza includere
    però quella storica ligure che non ha mai cessato di rappresentare un momento importante della produzione nazionale e che, quindi,
    non possiamo considerare di frontiera nonostante le ben conosciute difficoltà superate nei secoli per l’asperità dei terreni. Piemonte e Valle d’Aosta, Lombardia, Veneto, Trentino e Friuli-Venezia Giulia, Emilia-Romagna e Marche (quest’ultima in effetti più centrale che nordica) hanno comunque storiche tradizioni olivicole, evidenziate da notizie di autori classici e anche più recenti, notizie confermate da frequenti toponimi e riferimenti linguistici.

    Fino a pochi decenni fa aree a vocazione olivicola erano presenti in Lombardia, specie presso i laghi maggiori, così come in Veneto, Trentino e Venezia Giulia, Emilia-Romagna e Marche nelle zone marittime e collinari e spesso anche in zone interne e pedemontane.
    Importante e in recupero crescente, le varietà di olivo locali anche se in modo non strettamente necessario. Molte delle varietà presenti nei territori di frontiera sono condivise, infatti, con le regioni dove la cultura dell’olivo è assai più diffusa.

    L’olivo è quindi pianta più resistente alla rigidità dei fenomeni meteorologici di quanto sia la percezione generale. Uno degli autori non può dimenticare gli ulivi della Val Cavallina, nel brolo di famiglia, dell’antico convento di Borgo di Terzo, che non godono dei benefici del lago d’Iseo e neppure del piccolo lago di Endine, ulivi minuti ma di almeno un secolo di esercizio e forse assai più antichi, rigeneratisi di gelata in gelata.
    Uliveti di frontiera, figli di un clima un tempo più temperato e forse anche di trasporti meno frequenti e quindi figli della necessità di disporre di oli per ragioni sanitarie e cosmetiche, come per motivi religiosi oltre che alimentari.
    Produzioni che potevano ben competere, comunque, con quelle di altri oli di semi e frutti tutto sommato meno generosi di quelli derivati dalle olive e rispondere, quindi, anche all’esigenza di disporre di riserve alimentari durevoli.

    La crescita continua delle varietà selezionate nel tempo, l’aumentata consapevolezza nell’impiego delle migliori tecniche di coltivazione e di trasformazione hanno portato queste produzioni storiche, ma un tempo di scarsa rilevanza commerciale, ad acquisire valori qualitativi ed economici importanti anche fuori dai propri territori.
    Frontiere quindi ancora pedoclimatiche, ma esempio di orientamento alla qualità e valorizzazione del territorio tra le più significative nella variegatissima produzione olivicola italiana. E, tra queste, spicca Brisighella in un territorio collinare romagnolo prevalentemente esposto a sud, protetto dai venti freddi e compreso tra due confini: quello dell’area di coltivazione dell’olivo sul versante adriatico con caratteristiche pedoclimatiche diverse pur appartenendo alla stessa regione, e quello toscano con peculiarità ulteriormente differenti. Ma del «caso Brisighella», della sua capacità di distinguersi qualitativamente e di ottenere risultati commerciali considerevoli anche rispetto ad alcune realtà apparentemente più importanti sotto svariati punti di vista, tratteremo più avanti.

    Dimenticate le latitudini e le altimetrie, tutta la produzione olivicola italiana e l’intera filiera possono diventare esempio di una produzione e trasformazione di frontiera, scuola per le innumerevoli produzioni mediterranee e non solo, per una affermazione importante e globale degli oli da olive.

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